recensioni

Lodovico Gierut

(critico d'arte e giornalista)

Marilena Cheli Tomei

(saggista e storica)

Pietrasanta 24 Settembre 2020

Le "costruzioni della memoria" di Silvia Ottobrini.

Ho conosciuto Silvia Ottobrini da Sestri Levante, l'inciso è dovuto ad omonimie, grazie al versatile artista bergamasco Massimo Facheris che da tempo vive e lavora in una delle zone più note al mondo, cioè a dire quella magnifica terra di Versilia, in Toscana, patria di molti scultori e pittori, e da sempre luogo ottimale di operoso passaggio per via dei tanti Studi per la lavorazione artigianale e artistica del marmo e del bronzo, e non solo.

Direi dunque che è quasi impossibile per gli artisti, sempre che ne abbiano la possibilità e il tempo, non essere attratti da quella realtà composta da una moltitudine di elementi atta ad ottimizzare o a dare spunti alla propria crescita anche tecnica. Silvia Ottobrini mi è piaciuta sin dal primo incontro iniziato con una lunga chiacchierata dedicata a nomi storici e non, del trascorso e dell'oggi: da Michelangelo Buonarroti a Carlo Carrà, da Ernesto Treccani a Pietro Annigoni, Achille Funi, Alberto Bongini, Amedeo Lanci, Ugo Guidi, Igor Mitoraj, Franco Miozzo..., come ai rapporti culturali tra la sua amata Liguria e la cosiddetta "Versilia Medicea" dei Comuni di Pietrasanta, Seravezza, Stazzema e Forte dei Marmi.

In ogni modo, oggi non posso fare a meno di sottolineare con quanta passione abbia continuato a mettere in essere le sue "creature" grafico-pittoriche e scultoree, ricche di più simbologie, soprattutto accanto all'amico Facheris. Non s'affida al caso e ciascun elemento che s'unisce alla struttura che pian piano nasce per poi dar soluzione ad ogni sua idea, ha un motivo d'essere.

La sua espressione non è subito facile da comprendere in pieno, se l'osservatore non si cala, o meglio, se non si accosta ad una linea-guida sorretta prima di tutto dalla memoria. La memoria, infatti, che sia composta dagli assemblaggi più vari, o dai disegni a carboncino e a tecnica mista, fa parte dei suo "Io" che naviga tra la lettura e l'interpretazione di un passato "vittoriano" (mi riferisco soprattutto alle bambole, o a parte di esse, cioè al volto), di elementi "vintage" o dell'antichità, come di tutta una serie di materiale di arredo, in un tutto che sa definire in modo personale. Cerca, riuscendovi, di rendere concreti i pensieri spesso finalizzati a raccontare e ad interpretare "vite passate".

E' la memoria di cui facevo cenno all'inizio, che ne rende completo il lavoro. Ecco che balzano agli occhi quelle che mi piace definire, appunto, "costruzioni della memoria", per cui assieme ad una piccola e delicata figura femminile in ceramica bianca, circondata da un tondo metallico - la "perfezione", ci sono gli ingranaggi di un vecchissimo orologio a completare l'opera. Ecco, poi, una serie di lavori, più che altro scultorei, legati alla mano: la mano che stringe, che indica, che cuce, la mano benedicente, la mano del dolore..., la mano che partecipa alla sua concatenazione espressiva, sopra o accanto a libri datati, su cui ogni tanto fissa facce d'ogni tempo, quasi a far conoscere "ad ogni costo", sono parole sue, "ciò che è d'obbligo non dimenticare". Per lei l'oblio "sa di qualcosa di terribilmente negativo", dato che "dal passato, dalla storia anche giornaliera ciascuno può trarre un insegnamento". Collegandosi alla mano come ad altre sue sculture, questa artista ligure costruisce i soggetti in maniera diretta, evitando, anche per l'ingrandimento, pur se fino ad oggi non ha fatto opere monumentali, certe "nuove tecnologie" altrove utilizzate in modo eccessivo. Non voglio entrare nel merito, ben lungi da fare nomi e cognomi anche di fama mondiale, ma è con malinconia che da tempo vedo scultori che firmano ciò che è stato "costruito" da altri (anche se dietro un loro bozzetto), senza intervenire minimamente, sì che la fase finale è quasi sempre al cento per cento asettica, senz'anima.

Il simbolo vive e pulsa in ogni sua opera, risultando così lo specchio di ciò che sa dare, l'esatto volto di una dimensione personale in cui possiamo trovare i fini raggiunti, esplicati - ad esempio - la rosa appassita della bellezza passeggera, le forbici viste nell'ottica di tagliare le negatività, ma è interessante notare le spine del dolore e del sacrificio e di una certa storia, anche con alcune installazioni, con un passaggio del tempo che sa unire con equilibrio grazie alla logicità del proprio pensiero.

Pensando anche ad altrui concetti e modi d'essere, credo che Silvia Ottobrini, creando opere anche tramite l'assemblaggio, abbia saputo unire ciascun oggetto/soggetto in maniera tale da dar voce concreta al proprio pensiero poetico.

In poche parole, che la base del suo creare abbia uno sfondo storico, o si sia completata con elementi connessi alla tradizione e persino al folclore (i vestiti di certe bambole, per esempio), pur se può apparire un documento cronachistico legato al tempo, ne testimonia la poetica, cioè a dire l'interiorità e l'umanità.

Il suo linguaggio è espressivo e perciò comunicativo, definendo con esattezza quale ne sia la dimensione artistica; credo dunque più che giusto accostarle le parole di Franco Miele, tratte dal volume "Teoria e storia dell'estetica" (U. Mursia & C., Milano 1965) là dove il critico d'arte e pittore laziale scomparso nel 1983 afferma che è opportuno chiedere all'artista "di insegnarci a conoscere con la sua arte la verità di chi riesce a concepire la vita al di là delle apparenze. Da ciò il vero significato "etico" che scaturisce da ogni messaggio artistico, nell'acquisire ogni individuo la coscienza di appartenere a tutta l'umanità in un continuo e indiscutibile legame, morale e spirituale, che responsabilmente lo unisce agli altri, in una storicità che non riguarda più la vicenda di un singolo nelle condizioni della sua epoca, ma la Storia tutta dell'Uomo (...)".

Ho fatto questo cenno per dare una pur indiretta attenzione all'etica professionale di Silvia Ottobrini, giacché - osservandone le sperimentazioni artistiche, le creazioni e le vesti di ciò che ha fatto e va facendo in continua serietà - ho notato che è riuscita a costruire vere e proprie simbologie elaborando in più casi la memoria tramite più oggetti, giungendo così ad un risultato ottimale.

Che piacciano o meno a chi le osserva, mi sento di affermare che le sue opere ne rappresentano l'onestà tutta di un pensiero privo di voli pindarici o di suggestivi appelli che, una volta visto, conosciuto e capito, ci offre l'immagine piena e conclusiva di ciò che ella è.

A questo punto, anche per far giustamente capire che il rispetto nei confronti di Silvia Ottobrini non è soltanto mio, ma anche di colleghi, verso i quali nutro un'enorme stima, penso più che opportuno dare spazio a quello della saggista e storica toscana Marilena Cheli Tomei, che così s'è espressa: "Le prime parole alle quali ho pensato, osservando le opere di Silvia Ottobrini, sono state quelle del titolo del libro di Proust "La recherche du temp perdu", perché il passato è il regista e il protagonista della sua produzione.

Una impalpabile presenza, resa visibile nei volti graziosi ma immoti delle bambole vittoriane, nei meccanismi esposti ed erosi dal tempo e dalla ruggine, nelle pagine macchiate e consunte di un vecchio libro.

E' evidente il desiderio dell'artista di dare voce a ciò che è muto, perché suggerisca emozioni e ricordi, con l'uso di una simbologia insolita ma efficace che può all'inizio sconcertare o sorprendere, ma in seguito penetra silenziosamente nella coscienza dell'osservatore.

Le sue creazioni raccontano storie di un passato prossimo, segnato dai meccanismi di orologi la cui funzione è stata modificata dal segnare l'ora, all'accogliere bianche figurine che narrano di un tempo trascorso ma ancora capace di parlare al presente; sono bambini di biscuit sopravvissuti ai loro padroncini e Ottobrini ha saputo regalare loro una nuova vita che li ha resi messaggeri di un'epoca e di storie lontane nel tempo e nello spazio.

E allo stesso modo in cui i ricordi non sempre si presentano intatti, anche le bambole sono frammentate; i volti sono staccati dai corpi e inseriti al di sopra di strutture meccaniche o comunque antiche, sono sorridenti o ammiccanti nell'immobilismo di espressioni fissate dai canoni estetici dei tempi lontani. Nei meccanismi degli orologi una figurina bianca ferma le lancette per indicare che il ricordo trasforma il passato in presente e, in un medaglione, un braccio di bambola si posa su un fiore appassito e sullo stelo irto di spine per ricordare simbolicamente le gioie e i dolori di una vita trascorsa.

"Racconto storie di anime e disegno pensieri" sono le incisive parole con le quali Ottobrini definisce la sua attività e ad esse è necessario ispirarsi per comprendere il valore emozionale di queste opere.

La sua non è semplice oggettistica di recupero, è scrigno di memorie e di emozioni, è profumo di fiori appassiti ma ancora presenti nei petali e nelle spine per sottolineare storie di bellezza, gioia e dolore, è mano che blocca il filo spinato, è possesso e attualizzazione del passato

Ed ecco i pensieri di Ottobrini, che profumano di volumi polverosi e consumati, di vecchie fotografie ingiallite e scolorite dal tempo: anche in questo caso i disegni sono frammenti di carta strappati e ricomposti e dove è stata realizzata l'unione di due frammenti, sembra esserci una ferita. Ci sono le forbici che hanno tagliato pagine e immagini, per poi ricomporre, su un vecchio libro e legate da un simbolico fil rouge, due foto che hanno ispirato tutta una serie di disegni dei quali non è stata tracciata la parte superiore perché il ricordo non è sempre perfetto.

Le opere di Silvia Ottobrini sono fortemente suggestive e dense di significati ma forse di non facile lettura, eppure, se si osservano attentamente, emanano un fascino dolce, il familiare profumo del tempo passato, che ricordo ancora di aver avvertito ogni volta che entravo nel "salotto buono" dei miei nonni, quasi sempre chiuso ma vero e proprio museo di infiniti oggetti, come ha scritto il dimenticato poeta Guido Gozzano in "L'amica di nonna Speranza"... Il caminetto un po' tetro, scatole senza confetti/, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro/, un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,... Il cucù dell'ore che canta...".

Intervista a objectsmag.it

a cura di Alessia Cortese - fotografa e giornalista free lance - Novembre 2020

"L'arte come espressione dell'anima Silvia Ottobrini reifica la memoria con la voce dell'anima. Nell'opera intimistica dell'artista originaria di Sestri Levante, l'apparente incoerenza tra reale e immaginario, tra carnale e spirituale, si risolve attraverso l'oggetto artistico, che diviene personificazione dell'invisibile, espressione dell'essere o dell'inadeguatezza dell'essere al mondo. La materia sussurra "storie di vita, e di vite passate".

L'essenza purissima della Ottobrini fiorisce nell'inquietudine sublime dell'atto estetico, nella manipolazione della ceramica, nei ritratti a carboncino e nelle installazioni dal sapore gotico, realizzate con bamboline di epoca vittoriana, che Silvia compone con fantasia viva e cura carezzevole."

Intervista completa su:

www.objectsmag.it/larte-come-espressione-dellanima-intervista-a-silvia-ottobrini/

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